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Bitto Storico sintesi di eccellenze

Un percorso antico un gusto eccelso

Di: Gabriella Coronelli

25 Ottobre 2013

Categoria: ProfileFood

Che cosa è eccellenza gastronomica? Non è semplicemente un buon prodotto, è il risultato di un processo territorialmente contestualizzato così da creare valore al territorio, è sintesi di tutti gli aspetti socio-culturali che hanno contribuito alla formazione del prodotto finale. Non solo in Lombardia, forse nell’universo food, nessuno aderisce a questa definizione meglio del Bitto Storico14 ribelli, considerati dalle istituzioni dei pazzi da relegare, hanno intrapreso una lunga guerra, fatta di molte battaglie, da 16 anni per affermare il diritto del Bitto ad essere salvaguardato da influenze esterne che ne modificano la valenza culturale e nutritiva.

Celti producevano un formaggio che chiamavano “Bittu” parola che significa “perenne, che si conserva”, ottenuto da latte di mucche e capre che pascolavano nella valle diventata la Valle che prende il nome dal torrente che la percorre, il Bitto. Caratteristiche e metodi di produzione vanno oltre le leggi della modernità, hanno profonde radici nel passato e sono, per questo, garanzia certa di un futuro sia per il territorio che per l’economia della popolazione di quel territorio. Le vacchedi razza Bruna Alpina, hanno scritto nel dna la loro missione, brucare su pendii fino a 2400 m.s.l.m., libere, selezionando ognuna le erbe che gradiscono, lo stesso le Capre Orobiche; grazie a questa “competenza individuale” il latte prodotto è ogni giorno diverso, ogni giorno ha il profumo del pascolo dove hanno brucato; gusti e profumi salvaguardati dalla lavorazione che avviene in quota entro un’ora dalla mungitura. Il latte è scaldato in caldaia a temperature dai  48 ai 53° questa consente di produrre formaggi adatti alla stagionatura.  Solo la sensibilità del casaro determina la scelta di lavorazione, il casaro è uomo, o donna, di grandissima padronanza: da generazioni nella stessa famiglia si tramandano l’arte, a 9 anni diventa pastore e inizia un’ “università” unica; con orgoglio porta a casa come compenso del suo lavoro, il primo anno, una o due mascherpe (compenso per 3 mesi di lavoro) e ha ragione di essere orgoglioso, la mascherpa ottenuta dal siero del Bitto, è un formaggio di un gusto speciale, veramente unico, sulla tavola della famiglia rappresenta un onore. 

Anche chef di fama internazionale l’hanno scoperta e pochi hanno la possibilità di utilizzarla in preparazioni rare (le quantità prodotte sono modestissime). Alcuni pastori diventano casari a 15/16 anni, oggi la più giovane casara è Cristina Gusmeroli ha 17 anni.
Quando a settembre casari e pastori scendono dagli alpeggi, facendo il percorso inverso, si fermano in ogni pascolo dove sono stati e rompono le “torte” di letame e lo distribuiscono come concime, tutti sanno di avere questa responsabilità, la qualità del pascolo del prossimo anno dipende da questi gesti carichi di sapienza, di consapevolezza. Quello del casaro è un lavoro di squadra, svolto con animali, uomini e ambiente in assoluta armonia. Per 3-4 mesi vivono in sinergia totale, la concentrazione è favorita dall’isolamento dell’alpeggio, tutto è integrato, nulla è lasciato al caso: si spostano da un caléch all’altro, ogni volta trasportano a spalla tutta l’attrezzatura, la rimontano ogni mattina e ogni sera producono il Bitto, la giornata finisce quando la forma è fatta, 110 litri di latte per una forma di 10 kg di formaggio.

Il Bitto preparato è portato a Gerola Alta, a 1100 m.s.l.m., dove c’è il “Tempio del Bitto” e le forme si avviano alla stagionatura: il 60% saranno immesse sul mercato dopo un anno, le restanti si avviano ad affinazione che porterà, alcune di esse, a compiere 10/11 anni. Paolo Ciapparelli, custode del gral, le osserva, il primo anno le tiene sdraiate, poi le mette verticali, assaggia le gocce di grasso, le odora, le valuta con criteri suggeriti dall’amore per la sua terra, per i suoi casari, per il frutto di questa unione. Niente fermenti aggiunti, nessun mangime, neanche piccole quantità, zona geografica ben definita, lealtà al valore del territorio e della storia, rispetto della stagionalità fortemente condizionata da eventi che sfuggono alla volontà dell’uomo: tutto questo rende l’eccellenza tale e vera sintesi di un mondo che rappresenta un modello di piccola impresa funzionante e premiante, modello di grande valorizzazione e dignità. Il patriarca del Bitto è Mosè Manni, ha 80 anni, va ancora in alpeggio, la figlia Antonella ha ereditato la sua arte, è un piacere vederlo muoversi agilmente sui pascoli che conosce e rispetta da quando aveva 9 anni. Esperienza unica è anche ascoltare Mosè che racconta pacatamente di questa missione, descrive il rapporto che esiste tra il Bitto e questi alpeggi, questi luoghi che hanno conosciuto pastori guerrieri, i Celti, oggi ospitano generazioni di nuovi pastori guerrieri che non devono difendere il diritto alla terra ma il diritto alla storia, il diritto a salvaguardare un patrimonio che attribuisce un valore inestimabile a questa terra, il diritto a produrre un alimento dal valore nutrizionale eccelso che ha sostenuto generazioni di Milanesi, Veneziani, Svizzeri …