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Genius Loci Crotonese

Incontro con la doppia anima calabrese

Di: Lucia Galasso

7 Marzo 2013

Categoria: ProfileFood

“Profuma di mare, di montagna e di pasta fatta in casa.
Riecheggia di filosofia, di guerra e di pace.
Baciato da Madre Natura e tormentato dalla storia,
conta la tradizione, l’arte e la modernità.
La nascita di un territorio unico e affascinante: Kroton.”

Quando ho letto queste parole, sulla monografia che mi è stata donata dal GAL di Kroton, ho sentito dentro di me trillare quella campanella che conosco bene, chiaro segnale che mi avverte di aver percepito l’anima di un luogo. Devo ringraziare Piero Romano, dell’Azienda Fattoria San Sebastiano, per avermi regalato l’opportunità non solo di conoscere la sua terra e il suo lavoro, ma anche di avermi fatto toccare le corde nascoste di un Genius Loci fatto di persone, volti, memorie tangibili e intangibili, sapori e voglia di sbaragliare tutto ciò che frena la volontà di un patrimonio – in divenire – di essere conosciuto e valorizzato.

E’una forza percepibile, indomita, quella di Piero e di tutte le persone incontrate in questi due giorni trascorsi nel Marchesato del Crotonese. Riesce a farmi innamorare di una terra apparentemente sconfitta da disgraziate politiche economiche e culturali, che testardamente resiste, arroccata nel fare rete, perché è così che si vince l’inerzia della politica locale.

Sono a Strongoli, in una Calabria affacciata sul mar Ionio, e qui è già primavera. C’è un cielo gonfio di pioggia, contro il quale si stagliano nitidi, quasi violenti, i colori dei fiori a contrasto dei tronchi scuri degli ulivi. Lo stesso accade più in là con i filari dei vitigni (come per gli uliveti, anche qui agricoltura biologica che si sta convertendo in biodinamica) dai quali Piero ha ricavato un vino da Gaglioppo che è superlativo! Ma il principe di questa azienda, per adesso, è un EVO che ha fatto guadagnare al suo titolare, a solo tre anni dalla prima bottiglia, un parterre di premi nazionali e internazionali di tutto rispetto. A conferma di questo, mentre sto scrivendo, ho saputo che questo olio è appena entrato nella finale del prestigioso premio Ercole Olivario. E’ l’olio che mi ha portato qui, perché nel piccolo borgo che ospita la Fattoria San Sebastiano, sta prendendo forma un grande progetto: qui nascerà un museo aziendale dedicato all’olio e a tutto il mondo rurale che gli gira intorno, e Piero Romano ha pensato a me per dare vita a questa parte del suo sogno. Ho potuto così visitare i locali che lo ospiteranno, dove riposano le antiche filiere dedicate alla lavorazione dell’olio, in attesa di divenire le protagoniste di un luogo che celebra la loro storia e la loro tradizione. Al museo si affiancherà un Bed & Breakfast, forse un piccolo ristorante e infine una cantina. Ci vorrà tempo perché tutto questo sia realtà, ma Piero Romano è un uomo realista, crede in quello che fa, crede nel suo territorio, e ha imparato da un ottimo maestro, sia per il senso della terra che dell’imprenditorialità: RobertoCeraudo. E’ lui che per primo ha creduto nell’agricoltura biologica a Strongoli vent’anni fa, un vero e proprio pioniere, che ora vede premiato il suo olio e il suo vino… E il suo ristorante, il famoso “Dattilo“, una delle poche stelle Michelin calabresi, che, ahimè, trovo chiuso per lavori di manutenzione.

Osservo molto intorno a me, e non posso fare a mente di annotare sul mio taccuino, tra una riflessione e l’altra scambiata con Piero e Roberto Ceraudo, che c’è nel modo di alimentarsi dei calabresi qualcosa di sacro e d’antico, l’osservanza di regole di comportamento che vengono dai secoli. Qui si avverte, più che altrove, la connessione tra le esigenze della nutrizione e quelle dello spirito: ogni festa religiosa ha il suo cibo di devozione, ogni evento della vita familiare il suo adempimento gastronomico.

Se gli occhi vengono appagati dalle mille bellezze paesaggistiche e archeologiche del luogo, tra le quali svetta la bellissima Torre di Melissa, una delle tante sentinelle aragonesi del mare che costellano il litorale, la bocca trova ristoro e appagamento grazie alla scoperta della sardella.
La Sardella, ribattezzata ‘duja di mare, è una vera e propria celebrità calabrese. Può cambiare nome a seconda della località in cui ti trovi (e quindi rosamarina o mustica) ma gli ingredienti base di questa salsa morbida e delicata, ma molto piccante, rimangono il bianchetto, ovvero le sardine o le acciughe appena nate, la ninnata  (come la chiamano in dialetto), la neonata; il peperoncino piccante e il finocchietto selvatico. Io ho avuto la fortuna di assaggiarla “fatta in casa” conservata nell’olio di Piero e presentatami con lo stesso orgoglio di un artista che presenta la sua opera più bella, e più tardi in un piatto dello chef Salvatore Murano. Ma subito, al primo assaggio, vi ho associato l’essenza, il ricordo, di cosa per me è stata questa vacanza calabrese, una sorta di madeleine di Proust. E non a caso: la sardella incarna bene la doppia anima, fatta di terra e di mare, della Calabria, realtà che a volte dialogavano poco, arrivando ad una vera e propria separazione. Ambivalenza dovuta al fatto che la Calabria è una terra con un forte sviluppo costiero ma al contempo una terra rivolta verso l’interno, fattore che ha contribuito a plasmare il senso identitario delle sue popolazioni. Anche il contesto alimentare risente di questa dicotomia. Da una parte avremo, fin dall’antichità, la pesca, che da sola non riusciva però a garantire un’abbondanza tale da soddisfare la richiesta dei mercati e al contempo la presenza di questa risorsa sulle tavole delle genti che la praticavano, e dall’altra una forte vocazione agricola e pastorale che si svolgeva nell’entroterra. Ecco quindi che nelle zone interne si consuma pesce conservato, tramite salatura o essiccazione, esempio perfetto, questo, per sottolineare come l’alimentazione tradizionale non possa essere semplicemente ridotta alla presenza di prodotti locali. Il “tipico” e il “tradizionale”neanche in cucina coincidono con “locale”. I famosi piatti tipici a base di pesce, ad una più attenta osservazione (problematizzazione?), sono preparati soprattutto con pesce salato e conservato, importato o prodotto localmente. In questo contesto, la sardella dimostra tutta la sua importanza; è una riserva alimentare proteica ed energetica nei mesi invernali, è di facile lavorazione e infine è disponibile anche ai ceti meno abbienti. Se aggiungiamo che è di facile trasporto possiamo ben capire perché sia diventata così importante. Gli ingredienti alla sua base permettono poi di lavorarla anche nell’entroterra (non dobbiamo dimenticare che il pescatore è anche contadino o pastore, e chele donne che si occupavano della pesca e delle reti lavoravano anche nei campi). 

Ecco che la sardella diventa l’alimento ponte tra mare e terra. Sono riuscita a trovare, in un libro di Vito Teti, la testimonianza, raccolta da Assunta Scorpiniti, di un’anziana donna sulle norme da seguire per preparare una sardella impeccabile:

“La sardellina rigorosamente culinura, va lavata in acqua corrente e lasciata a scolare per un’ora; si inizia a conzare, a preparare, ma non più di due o tre chili alla volta, in un recipiente, aggiungendo prima il sale (fin c’un s’inn aggibba, cioè finché se ne impregna), poi il fatidico peperoncino juschente, davvero piccante (ma c’è anche la versione soft per chi non lo regge).

I due ingredienti sono dosati a regola, cioè a occhio, secondo l’esperienza infallibile che pone a misura ndi mani. Importante dare sempre la precedenza al sale perché altrimenti si rischia di ammazzare, cioè di far rinsecchire la sardella. L’impasto si mescola a lungo finché diventa omogeneo, una crema, quasi; quindi viene sistemato nel tarzaluro, un recipiente in creta smaltata adatto all’uso. Nei paesi vicini si usa far scolare la sardella conzata. A Cariati, per la convinzione che per cacciari a salimora, fare la salamoia, il miscuglio debba rimanere umido. Non a caso la salamoia è uno dei segreti della perfetta riuscita. Il tarzaluro viene chiuso con un disco di legno(timpagno) posto sotto la pressione di grosse pietre di mare. Quindici giorni e la sardella è pronta per essere gustata in mille modi”.

Uno di questi modi mi è stato appunto mostrato alla Trattoria Max a Cirò Marina, dove lavora superbamente Salvatore Murano, che ha proposto la rivisitazione della frittata uova-sardella-cipolle di Tropea in un piatto che aveva in sé passato, presente e futuro. Sono un’antropologa, e non una gourmet, ma di fronte a questa ricetta e ai superlativi gnocchi ripieni di spigola di mare rimango estasiata. Non è un caso che da questa Trattoria (ma non fatevi ingannare, è una trattoria di nome, ha un’anima ricercata lei) nasce il progetto dedicato “Ai sensi pitagorici“, condensato in un libro che raccoglie la memoria di una cucina del territorio, che trova da Pitagora (che a Crotone fondò la sua scuola) in poi la voglia di raccontarsi attraverso tutti i cinque sensi.

Il sesto senso, l’ho trovato invece osservando un mare blu cobalto, in piedi sulla scogliera di Capo Colonna, dove un’unica colonna testimonia, con i suoi 8 metri d’altezza, il luogo dove sorgeva il maestoso tempio di Hera Lacinia. Lì un mare agitato mi ha raccontato che quelle rovine di templi, alle mie spalle, hanno visto nascere e morire le colonie della Magna Grecia.

C’è tanto da scoprire e da fare qui nel Crotonese, e c’è già chi lo sta facendo più che bene, ecco, io vi aggiungerò il mio verso.