Perché non mi riesce la ricetta?
dall'oralità alla scrittura
Di: Lucia Galasso
Sicuramente vi siete trovati di fronte all’immagine, al nome o alla storia, di una ricetta che vi ha affascinato, e di conseguenza vi è venuta voglia di realizzarla. E qui sorge il problema: il passaggio dalla teoria alla pratica rischia subito di arenarsi alla lettura della ricetta. Leggendo ci rendiamo conto di non essere in grado di portarla a compimento… Perché?
Il problema nasce lì dove le capacità manuali si incontrano/scontrano con il linguaggio. Da una forma scritta dobbiamo infatti passare a una modalità di agire che ancòra il suo sapere nell’oralità. Due mondi differenti devono trovare il modo di collidere per creare qualcosa. Il linguaggio, infatti, è sempre in difficoltà quando deve descrivere le azioni fisiche, e lo è soprattutto quando vuole impartire istruzioni (quanti di voi si sono trovati a loro agio nella fase di montaggio di un semplice mobile dell’Ikea?).
Il problema, quindi, è quello di creare istruzioni espressive che diventino comunicative. Questo non implica escludere la scrittura, bensì pensarla in maniera tale da renderla il più efficace possibile.
Vari ricercatori, che hanno studiato la relazione esistente tra istruzioni verbali e gesti della mano dal punto di vista neurologico, sono arrivati a dimostrare che le categorie stesse del linguaggio sono create dagli atti intenzionali delle mani: i verbi derivano dalle mani in movimento, i sostantivi “afferrano” le cose con il nome e gli avverbi e gli oggettivi, al pari degli utensili per la mano, modificano movimenti e oggetti.
In definitiva noi narriamo il nostro corpo, e il nostro corpo narra noi, siamo linguaggio fisico, ritmo.
Per tornare al modo della scrittura non è un caso che agli aspiranti scrittori venga chiesto di mostrare in atto gli eventi anziché indicarli in astratto: la rappresentazione fisica comunica più cose di un’etichetta astratta. La sfida, per lo scrittore, è di dare espressività alle istruzioni, tanto da renderle un tutt’uno con la grammatica e sintassi corporea. Eliminando, di fatto, la dieresi tra scrittura e oralità, rendendo la loro osmosi un armonioso divenire.
Dobbiamo tenere in considerazione, infatti, quanto già nel passato remoto della nostra cultura occidentale abbia pesato il passaggio dall’oralità alla scrittura. Evento rivoluzionario, nel contribuire a plasmare le nostre coscienze moderne, ben esposto nel lavoro di Eric A. Havelock , Walter J. Ong e Giorgio Raimondo Cardona. Il modo in cui decodifichiamo la realtà è nato in questo contesto cognitivo; pensare orale e agire scritto apre tutta una serie di ambiti che vanno dalla dimensione storica, a quella linguistica e infine a quella psicologica (se vi interessa un breve excursus su questo argomenti vi rimando a un mio vecchio articolo dedicato al passaggio dall’oralità alla scrittura nel mondo classico).

Quindi quando non ci riesce una ricetta la colpa di chi è? Delle nostre scarse abilità manuali o di istruzioni poco comunicative?
Richard Sennett nel suo “L’uomo artigiano” ci propone una lettura molto interessante di questo fenomeno, e lo fa proponendoci la lettura della medesima ricetta scritta, il “Poulet à la d’Albufera”, fatta da tre “food blogger” vintage: Julia Child, Elizabeth David e Madame Benshaw. Tutte e tre ci introdurranno a diverse possibilità espressive della lingua, aiutandoci (chi più, chi meno) a evitare i due errori più comuni in cui rischiamo di arenarci quando mettiamo mano a una ricetta. Dovremo tenere presente che la difficoltà di questa ricetta, prima di procedere alla vera e propria fase culinaria, è nascosta nelle capacità di disossare il volatile.
Il primo errore è quella che Sennett definisce denotazione inerte, non trovando in pratica un parallelo visivo nelle illustrazioni delle istruzioni per il fai-da-te, o nella serie di comandi (recidete, mantecate,scalzate ecc.) che più che spiegare il processo lo nominano solamente, ci dà semplicemente l’illusione di poter portare a termine il nostro compito, se in precedenza non ne abbiamo fatto già esperienza. L’altro errore si nasconde nel sapere tacito: le cose che conosciamo ci sono così familiari da indurci a dare per scontati i riferimenti mentali a cui li associamo e a presumere che gli altri abbiano i medesimi riferimenti.
La sfida è quella di abbattere entrambi questi estremi. Vediamo ora come hanno affrontato il problema le nostre 3 cuoche.
JuliaChild – Chi non conosce ormai la storia di questa famosa cuoca? Il film del 2009 “Julie & Julia” ci ha raccontato tutto di questa icona della storia della cucina americana. Ecco, buona parte del merito della Child sta nel fatto di aver trasmesso i procedimenti imparati a Parigi, nella prestigiosa scuola Cordon bleau, ripensandoli per la neofita casalinga americana. Si trattava, in pratica, di trasformare ricette dal gusto dichiaratamente denotativo in un procedimento in grado di non scoraggiare la cuoca principiante. Nel suo famoso libro “Mastering theArt of French Cooking” la famosa ricetta del pollo alla d’Albufera occupa quattro pagine, ed è suddivisa in 6 stadi molto particolareggiati.
Come sappiamo, la difficoltà di questa ricetta risiede principalmente nella difficoltà del disossidare il pollo, è quindi interessante notare come, nel descrivere i passaggi salienti di questa operazione, la Child si prefiguri il disagio dell’aspirante cuoca di fronte al pollo e la ammonisce “[…] orientate sempre il filo della lama contro l’osso, mai contro la polpa”. La Chid lo sa, il disastro è sempre dietro l’angolo. Proprio per questo il suo programma televisivo “The french chef” era stato studiato in modo tale da privilegiare l’uso del primo piano per seguire i movimenti delle mani da un passaggio all’altro. Allo stesso modo, i disegni che illustrano il suo libro si concentrano sui procedimenti più difficili che le mani devono affrontare. Nessuna direttiva precisa, la Child racconta una ricetta che è strutturata intorno all’empatia per la cuoca. E’ la cuoca a essere protagonista, non la ricetta.

Il linguaggio che utilizza è ricco di un particolare tipo di analogia: quella per approssimazione. Una scelta che ha un motivo ben preciso: se descrivo che tagliare i tendini del pollo è tecnicamente simile a recidere un pezzo di spago, attivo una particolare modalità del cervello: il “come se”, che mi aiuta a far lavorare bene insieme cervello e mano, favorendo la concentrazione di entrambi sull’azione in sé. A favore di questo tipo di analogia gioca anche il fattore emotivo: l’idea suggerita che un gesto nuovo assomigli approssimativamente a un gesto già eseguito in precedenza, cosa che favorisce, inoltre, la fiducia in sé stessi.
Julia Child, da esperta, guida la novizia cuoca prefigurandosi quelle che saranno le sue difficoltà; empatia e prensione si uniscono, dando vita a un metodo di insegnamento basato sulla simpatia, intesa nel suo senso di condivisione comune di un vissuto.
Elizabeth David – in pratica la missione che Julia Child si è assunta per la cucina americana è la medesima che fa sua Elizabeth David, solo che la esporta in Inghilterra subito dopo la fine della seconda guerra mondiale. Indignata dalla situazione miserevole in cui versava la cucina inglese, dove il cibo più che cucinato veniva maltrattato e mal considerato, la David decide di insegnare ai propri compatrioti a conoscere gli alimenti di paesi lontani, ma anche a cucinarli come si fa all’estero.
L’approccio di questa scrittrice alla ricetta del pollo alla d’Albufera si differenzia subito dalla scelta del volatile, gli preferisce subito la gallina, e una gallina particolare: una gallina della campagna del Berry. Siamo ad anni luce dalla Child, Elizabeth David sceglie di insegnare la tecnica culinaria attraverso l’evocazione del contesto culturale. La ricetta diventa quindi un vero e proprio racconto di come questa vecchia e coriacea gallina si trasformi da volatile adagiato su un banco del pollivendolo in uno squisito e tenero animale adagiato nel suo morbido nido di riso e prezzemolo. Tutto viene descritto, iniziando dal cuoco (del Berry anche lui ovviamente) che si chiede cosa fare delle vecchie galline ormai non più in grado di fare uova, al suo tastarne le carni mentre immagina gli ingredienti migliori per la sua farcitura “[…] il maiale e il vitello macinati che dovranno formare l’impasto sono abbastanza delicati? […] Gli ingredienti, ammorbiditi con brandy, vino e brodo di vitello, verranno spalmati sotto la pelle della gallina” e poi infine, ci si prefigura la cottura “[…] un sobbollire lento, lentissimo, a fuoco dolce, la gallina in un bagno di brodo profumato con timo, prezzemolo e una foglia di alloro”.
La David racconta una ricetta, persa per il suo amore verso l’esotico (che sia stata una delle prime antropologhe alimentari della storia?), convinta che l’unico modo per cucinare bene è immergersi completamente nei luoghi dove la ricetta trae origine, immaginando di viverci, cucinando come gli abitanti del luogo. La nostra scrittrice si affida alla narrazione scenica, in cui il “dove” prepara le condizioni per il “come”, arrivando a costeggiare l’argomento senza dare direttive specifiche. Il problematico compito di disossare la gallina è presto risolto: la David esorta il lettore a pretendere che sia il pollivendolo a fare il lavoro per lui! Più che insegnare a cucinare, la nostra scrittrice vuole insegnare a pensare in maniera gastronomica, arrivando quasi del tutto a eludere le tecniche in questo modo. Il vantaggio c’è, ed è da ricercarsi in questa sorta di affabulazione nella quale la ricetta diventa una sorta di genere letterario con un inizio (gli ingredienti crudi), uno svolgimento (la loro combinazione e cottura) e una fine (il pasto).
MadameBenshaw – quest’ultima cuoca non è un personaggio famoso, se non nel ricordo affettuoso di Richard Sennett, essendo stata la sua insegnante a un corso serale di cucina. Sennet la ricorda come una cuoca straordinaria, in grado di padroneggiare alla perfezione la cucina francese, italiana e persiana. Già, persiana, perché madame Benshaw approdò negli Usa, in fuga dall’Iran, nel1970. Questo spiega molto del suo modo di insegnare, perché, nonostante abbia passato tutta la sua vita, fino alla morte, in America, il suo inglese è stato sempre molto scadente. Da qui il motivo che l’ha portata a insegnare più che altro attraverso l’esempio pratico, accompagnato da piccoli sorrisi o enfatiche espressioni del viso.
Un metodo di insegnamento non molto funzionale se si tiene in conto che le sue mani lavoravano con una velocità tale da essere difficilmente imitabili da un neofita. Ragione che indusse suo allievo a chiederle di trascrivere la ricetta del pollo all’Albufera, in modo tale da correggerla e darla a tutti i partecipanti del suo corso di cucina.
Sennett ricorda che madame Benshaw ci mise un mese intero per scriverla, e alla fine gli consegnò questo testo:
“Tuo bambino morto. Lo prepari per nuova vita. Lo riempi con laterra. Attenzione! Non deve ingozzare troppo. Metti al bambino il suo mantellod’oro. Gli fai il bagno. Lo scaldi ma attenzione! Un bambino muore per tropposole. Gli metti i suoi gioielli. Questa è la mia ricetta”.
Questa è la traduzione che ne fa Sennett:
“Tuo bambino è morto [il pollo]. Lo prepari per nuova vita[disossare]. Lo riempi con la terra [il ripieno]. Attenzione! Non deve ingozzare troppo [mano leggera con il ripieno]. Metti al bambino il suo mantello d’oro [rosolare prima di infornare]. Gli fai il bagno [preparare il liquido di cottura]. Lo scaldi ma attenzione! Un bambino muore per troppo sole [la temperatura del forno: 130°]. Gli metti i suoi gioielli [la salsa di peperoni]. Questa è la mia ricetta”.
Madame Benshaw si affida completamente al potere della metafora per trasmettere la sua ricetta, una modalità tipica della cultura persiana. In questo modo la sua trasposizione diventa uno strumento potente per contemplare con intensità i processi implicati in ogni stadio della ricetta. Le metafore non ci stimolano a rifare a ritroso, passo dopo passo, il percorso per cui un’azione ripetuta è divenuta sapere tacito. Ma anzi, aggiungono una valenza simbolica all’intero processo, conferendogli un’indelebile fissità nella nostra memoria.
Tre donne, tre esempi diversi tramite i quali il linguaggio, espressivo e immaginativo, può essere messo al servizio di un fine pratico, in modo tale da guidarci in tutta l’esecuzione della ricetta. Una modalità di fare, e ragionare, che non riguarda solo la cucina. Le istruzioni espressive riconnettono il lato tecnico delle cose con la nostra immaginazione. Sennett le definisce “attrezzi linguistici” da impiegare in ogni campo del sapere. Quando cervello e mano sono allineati si apre un modo di possibilità dove il secondo passaggio è l’uso immaginativo degli attrezzi materiali… e qui si apre tutto un altro mondo.
Dal mio canto, se devo fare una scelta, mi trovo molto affine a Elizabeth David, non a caso ho la casa affollata di romanzi culinari…. e voi?
* LuciaGalasso, un’antropologa dell’alimentazione. L’antropologo alimentare si dedica, anima, corpo e stomaco, a studiare i processi e le dinamiche culturali connessi alla produzione, preparazione e consumo del cibo nelle diverse culture, alla loro storia e, in particolare, ai significati socio culturali a loro sottintesi.