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Roberto Rubino Cibo disconnesso dall’agricoltura

Mangiare NON è più un atto agricolo

Di: Gabriella Coronelli

1 Febbraio 2018

Categoria: ProfileFood

Viviamo l’epoca delle connessioni, tutto è connesso e genera valore aggiunto, in questo articolo/analisi pubblicato sul n°3 di Infiniti Mondi, scritto dal ricercatore Roberto Rubino, scopriamo che il cibo, contrariamente alla sua natura, è disconnesso dall’agricolura

Negli ultimi dieci anni la cucina, la gastronomia hanno letteralmente invaso la nostra quotidianità. Soprattutto da quando la politica ha tristemente abbassato il suo livello culturale, nei bar e nei salotti televisivi non si fa che parlare di cibo, di cucina, di ricette.
Ma, come spesso succede, siccome i guai non vengono mai da soli, ancor prima di parlare di cibo, nessuno riesce ad esimersi di accennare alle proprietà salutistiche o meno di quel determinato formaggio o legume. Siamo tutti nutrizionisti e grandi chef.
E non a caso, questi ultimi, sono ormai ospiti fissi di qualsiasi programma televisivo e tutti, proprio tutti, quando devono motivare la scelta degli alimenti utilizzati per la ricetta che stanno proponendo, non riescono a trattenersi dal decantare le proprietà antiossidanti, antibatteriche, antistress e via di questo passo. Naturalmente tutto questo clamore ha dato molta visibilità a chef e nutrizionisti.
Ma i cibi sono un prodotto dell’agricoltura. Ne beneficia anch’essa?
Carlin Petrini, fondatore di SlowFood, spesso interviene sull’argomento cercando di ricordare a tutti che “mangiare è un atto agricolo” e che quindi le ricadute, se ci devono essere, devono riguardare anche i contadini, gli allevatori, chi insomma con grande fatica e spesso senza guadagnare il giusto, fa sì che noi si possa allestire quotidianamente la nostra tavola e che chef e nutrizionisti possano esercitare il loro mestiere.
Purtroppo l’agricoltura continua ad essere ai margini del dibattito e queste due categorie, con il loro approccio, contribuiscono ad aggravare i problemi dei produttori.

La principale motivazione va ricercata nella commodity, nel prezzo unico che affligge quasi tutti i settori, in un modello in cui il prezzo della materia prima non deriva da un accordo fra le parti ma da una borsa merci, collocata in qualche parte del globo che solo pochi conoscono e che decide per tutti. Non solo, se il prezzo è unico, il mondo che gira intorno a quel prodotto, l’intera filiera è autorizzata a pensare che anche la qualità sarà la stessa e che, se differenze dovessero esserci, non saranno così significative.
Va da sé poi che, se tutto è uguale, noi non disponiamo delle chiavi di lettura della qualità e, quindi, gli chef, l’industria e i consumatori non possono decidere il livello qualitativo dell’acquisto che intendono fare. E se il prodotto acquistato dovesse essere di qualità, questa è dovuta al caso.
Proviamo a fare degli esempi, lasciando da parte il mondo del vino perché è l’unico dove non esiste la borsa merci e dove il livello di prezzo del vino non dipende dall’appartenenza ad un marchio comunitario, DOP o DOCG, ma dalla capacità del produttore di decidere e imporre il prezzo che ritiene più giusto.

Incominciamo dal settore orto-frutticolo dove la quasi totalità della produzione è intensiva e dove l’unico modello alternativo è quello biologico. Nel sistema intensivo il prezzo è determinato dal mercato e non dal produttore. Il consumatore non dispone delle chiavi di lettura della qualità e l’unica scelta alternativa è il biologico. Non a caso, in questi ultimi anni, il modello è in forte espansione, nonostante la persistenza di una diffidenza latente da parte dei consumatori verso la serietà dei controlli. In questo settore il produttore lavora sempre con margini ridotti e spesso il prodotto non viene nemmeno raccolto.
Ma il vero problema è il caporalato e il salario degli addetti, di quei stagionali che vengono utilizzati per la raccolta. Spesso o quasi sempre sono extracomunitari e comunque la paga è bassissima. Se a questo aggiungiamo che questi modelli intensivi utilizzano diserbanti, anticrittogamici e concimi in proporzioni altissime e che l’impatto sui suoli è da non sottovalutare, possiamo dire che “mangiare è un atto agricolo”?

Passiamo ora ai cereali. Il grano viene utilizzato soprattutto dall’industria della pasta e del pane. In Italia dobbiamo importare almeno il 30% del fabbisogno, gran parte del grano arriva al porto di Bari e viene lavorato e stoccato ad Altamura e dintorni. Il prezzo è unico e variabile in funzione del mercato, anche se alcuni produttori utilizzano la proteina come parametro per definire il prezzo finale del grano. Ma la proteina non ha alcuna relazione con la complessità aromatica e nutrizionale della farina e, quindi, della pasta e del pane. Anzi, in genere, una pasta con un più alto contenuto di proteina costa meno di una che ha un basso contenuto della stessa. Livelli proteici elevati sono indispensabili solo a quell’industria che utilizza processi di lavorazione veloci e temperature di essicazione più elevate.
Quindi, se il prezzo è unico, se la proteina non è un parametro qualitativo e se tutti si riforniscono, chi più chi meno, dagli stessi mugnai, se non disponiamo delle chiavi di lettura della qualità, come fanno i pastai a decidere il livello qualitativo della pasta, come fanno gli chef a scegliere per noi la pasta e come facciamo noi a definire un rapporto prezzo/qualità? Possiamo dire, anche in questo caso, che “mangiare è un atto agricolo” visto che i produttori non hanno alcun ruolo nella formazione del prezzo?

Un altro cereale importante è l’orzo, specialmente negli ultimi anni, perché c’è stata una vera esplosione di birrifici artigianali e di birra di qualità molto diversificate. La birra si fa con l’orzo, ma questo cereale non compare mai nei manuali dei birrai. I maltifici hanno ormai deciso le varietà e le cultivar di orzo che meglio soddisfano le loro esigenze tecnologiche ed impongono ai produttori, come unico parametro da rispettare, la grandezza dei chicchi che deve essere il più possibile omogenea. Non importa la resa per ettaro, se sono state prodotte 2 tonnellate o 10, non si tiene conto cioè dell’unico fattore determinante della qualità dell’orzo e, di conseguenza, della birra. Ma se, allora, i birrai non tengono conto della qualità dell’orzo, come fanno a decidere a tavolino, prima di avviare la produzione, il livello qualitativo del prodotto finale? I loro sacri testi danno importanza solo ai lieviti, alla tecnica di maltazione e al luppolo. Quindi è anacronistico o pleonastico supporre che una parte importante della qualità avvenga a caso? E comunque, questo è uno di quei casi in cui possiamo affermare con certezza che bere birra non è certo un atto agricolo.

Un altro cereale molto presente sulla nostra tavola è il riso. Ho provato a capirci qualcosa, ho interrogato ricercatori miei colleghi che mi hanno confermato che nel settore si parla sempre e solo di varietà. L’unico elemento di diversità e, quindi, di prezzo è il nome che compare sulla confezione: arborio, carnaroli, venere, ecc … poi, all’interno di ciascuna varietà, tutto è uguale. E siamo alle solite, ormai è una moda di cui non riusciamo a liberarci. Le varietà vegetali come le razze animali sono un segno di distinzione non di superiorità. Quest’anno Wine Spectator ha proclamato il Merlot quale miglior vino al mondo, poi abbiamo Merlot che costano poco più di un euro a bottiglia. Siamo diventati tutti razzisti a nostra insaputa.

E veniamo ora al settore più importante del panorama agricolo, non foss’altro perché presente in tutto il territorio nazionale: la zootecnia.
Partiamo dalla carne, vero paradigma del “tutto uguale”. Più o meno come il caffè, anche se almeno in questo caso si parla di miscela e non di singola varietà. Infatti il prezzo del caffè come quello della carne è sempre uguale, tutti i giorni per tutto l’anno. Non solo, al bar come in macelleria il consumatore non ha scelta: c’è una sola miscela di caffè e una sola specie di animale. Fatte rarissime eccezioni, naturalmente. Eppure in Europa esiste un metodo di pagamento della carne (Europ) che avrebbe la pretesa di mettere in relazione il prezzo con la qualità. A parte che è un metodo basato sulla resa e, al massimo, fa comodo al macellaio, ma il consumatore non ne beneficia mai, tanto il prezzo è sempre uguale. Quindi, non c’è nessun legame con la qualità, anzi non si ha nessuna idea sui fattori e sui parametri che la determinano.

E veniamo al latte che non se la passa meglio. Come nella carne, il metodo di pagamento è basato su parametri che fanno comodo ai caseifici e all’industria di imbottigliamento. Nel settore caseario si privilegiano grasso e proteina, perché questi hanno una resa diretta sulla resa, nel settore del latte alimentare c’è molta attenzione all’igiene per le ripercussioni sulla durata di utilizzo del latte. E, comunque, il prezzo per i consumatori è sempre uguale e la differenza fra il formaggio più caro e quello meno costoso sono minime, ridicole rispetto alla discrasia qualitativa che, a insaputa degli stessi produttori, eppure esiste.
E ça va sans dire, anche in questo caso non si conoscono (o meglio si conoscono ma si preferisce non prenderne atto) i fattori che determinano la qualità. Di qui due paradossi che fanno capire fino in fondo la situazione del settore. I produttori, nel 1989, hanno preteso la legge 169/89 in base alla quale chi produce un latte con determinate caratteristiche può etichettarlo con la dicitura “Alta Qualità”. A parte che lo Stato deve solo garantire la salubrità dei cibi e non deve intervenire sugli aspetti qualitativi che sono soggettivi e comunque cambiano nel tempo, ma la questione centrale è che i parametri scelti non hanno alcuna relazione con la complessità aromatica e nutrizionale, tanto che quel latte viene prodotto nei sistemi intensivi che, per definizione, non si collocano certamente sul gradino più alto della qualità.

L’altro paradosso riguarda i formaggi. Se il latte è tutto uguale lo sarà anche la qualità dei formaggi. Invece il latte degli animali al pascolo è molto diverso di quelli stallino. Il prezzo del latte dovrebbe essere diverso così come quello dei formaggi. Invece, salvo rari casi, così non è. Qualche esempio: a Ragusa, l’allevatore che destina parte del latte per la produzione del Ragusano prende solo 2 centesimi in più rispetto allo stesso latte che viene destinato alla produzione di altri formaggi. In gran parte degli alpeggi del Nord il prezzo del latte invernale, con gli animali alla stalla, è uguale o molto simile a quello estivo degli stessi animali ma che sono in alpeggio.
La gastronomia italiana sta vivendo un momento magico. Dovunque vai nel mondo trovi ristoranti italiani, sempre molto apprezzati e frequentati. In Italia si fa una continua apologia del patrimonio caseario, della pasta, del riso, dei salumi. I primi a beneficiare di questa onda lunga dovrebbero essere gli agricoltori, gli allevatori, i contadini, i pastori. Il prodotto dovrebbe essere pagato in base alla qualità, perché dietro a questa qualità c’è uno sforzo non comune, c’è una cultura, c’è una scelta. Invece il prezzo è tutto uguale e questo meccanismo premia paradossalmente chi fa meno qualità.
Purtroppo dobbiamo ammettere che “mangiare NON è proprio un atto agricolo”.